Il vino, la guerra, gli amori, le odi. Il vino dei poeti e quello degli osti, dei tabarin e degli ubriaconi, dei naviganti e dei marinai.

Quello soave dei cafè parigini della rive gauche e quello torbido delle notti di risse e inquietudine degli artisti. Il vino ha una storia antichissima e il suo stesso termine è incerto. Per i linguisti, siamo di fronte a una parola “viaggiante”. Perché appunto ha radici che si perdono nell'antichità. Per Cicerone, nel suo etimo, risiedono “vir”, uomo e “vis”, forza, quasi a simboleggiare la struttura di un elisir capace, soprattutto in alcuni momenti, di regalare “struttura” e di rinsaldare un potere. Secondo altri, la parola deriva dal sanscrito “vena”, laddove “ven” sta per amare. E non è un caso se Venere e Bacco siano stati spesso associati non solo nel mito, ma nell'immaginario collettivo, grazie a una produzione letteraria e artistica molto prolifica. Una cosa è certa: l'uso del vino, in particolare nel mondo antico, era diffuso ed apprezzato. Non è un caso se i termini “bibere” e “pinenin”, rispettivamente nella cultura romana e greca, significano non semplicemente bere, ma bere vino. I greci di Lesbo e di Samo ereditarono la coltivazione del vino dall'Egitto, dove la produzione era attiva fin dal 1000 a. C.. Il Delta del Nilo era infatti il fulcro della produzione del vino resinato, un prodotto che a sua volta era giunto fin lì grazie ai fenici che, tra il Caucaso e il Mar Nero, cullavano le viti per ricavarne un succo chiamato gwino. Tant'è che tutt'oggi i georgiani amano chiamare il loro Paese la culla del vino. In realtà, il famoso nettare degli dei fu scoperto, forse casualmente, già nel periodo neolitico, come conferma il ritrovamento di alcuni recipienti nei quali l'uva, lasciata a conservare per troppi giorni, prese spontaneamente a fermentare. Ma è con i sumeri che la bevanda acquista una allure tutta particolare, visto che la foglia di vite era adoperata per simboleggiare la prova dell'esistenza umana. Nel mondo greco il vino rappresenta addirittura un segno di civiltà rispetto alla rozzezza dei barbari usi a tracannare birra. Purché fosse miscelato, in giuste proporzioni, con acqua, mirra, miele e spezie, affinché potesse inebriare e distendere, senza però far perdere l'uso della ragione. Tutto, vino compreso, ruota intorno al concetto di metriotes, quella misura a cui attenersi per non scavalcare mai un perimetro di regole alla base della serena esistenza della polis. Un esempio su tutti. Nel famoso Simposio di Platone, Senofonte racconta di Socrate, suo maestro e di un suo insegnamento: il vino sta all'uomo come l'acqua alle piante. Una giusta quantità è fondamentale per la crescita dell'arbusto. Un eccesso, invece, rischia di danneggiarne le radici. In questo senso si inserisce anche una interessante riflessione del professore Giampiero Arrigoni che ricorda come solo gli esseri selvatici o pericolosi, ne fanno abuso: Polifemo, che finirà vittima di Ulisse; la maga Circe, che prova a mescolarlo con i veleni per circuire le sue prede; Elena di Troia, che lo miscela con il feroce nepente. In modiche quantità, invece, era fondamentale per entrare in contatto con il divino, rivelare l'identità sepolta (vedi l'Alceo di en oino aletheia), cementare la comunanza di un simposio inteso quale luogo politico, in senso etimologico, nel quale dibattere non solo di filosofia, ma anche delle strategie per il governo della polis e tenere insieme una eteria di intellettuali e strateghi. Ce lo conferma Plutarco, quando, proprio a proposito del simposio, ragiona in termini di accrescimento della philia tra i commensali, laddove per philia non si intende la semplice amicizia tout court, ma la ridefinizione di una identità di gruppo che non può essere minata dagli eccessi (di questo scriverà anche Anacreonte, invitando alla moderazione degli aristocratici, contro la volgarità degli sciti). Ma è forse Alceo il poeta che più e meglio di altri, nel mondo greco, ha saputo cantare, da uomo contemporaneo, il vino e le sue virtù, anzi, la sua principale caratteristica, quella di lenire i dolori che saranno poi cari ai poeti maledetti e non solo. Quelli, figli della consapevolezza della finitudine dell'essere umano e della sua irrinunciabile melanconia. Alceo è difatti il teorizzatore del “non si vince la morte”, rappresentata magistralmente dal mito di Sisifo, colui che attraversò due volte l'Acheronte senza per questo riuscire a farla franca. Ma il vino può realmente stemperare quest'ansia che attiene all'essere umano pensante dall'origine della Storia ai giorni nostri? Il filosofo Giorgio Cosmacini ci ricorda che siamo in presenza di un pharmakon e che questo termine ha un duplice e antitetico significato: medicina e veleno. E la medicina, per non diventare veleno, non può che essere presa a piccole dosi. In tutta questa metriotes di cui parlavamo prima, un'eccezione c'è, ed è data da Dioniso, il dio della natura e degli istinti, dell'eccesso e dello sparagmos che successivamente il cristianesimo tradurrà, epurato, nel rito dell'eucaristia. Ma Dioniso è lo straniero, il dio della Tracia osteggiato da Domiziano che, nel 92 d.C., proclamò il primo editto per ridurre le piantagioni di uva a favore delle più redditizie messi. Prima, fu l'Impero romano a dare impulso alle produzioni vitinicole ed è Plinio il Vecchio a raccontarci che all'epoca esisteva una lista di ben 195 vini, 80 dei quali pregiati. Del resto Orazio, il poeta del carpe diem, può essere considerato un enologo ante litteram per la quantità e la precisione dei consigli lasciati ai posteri su come travasare e conservare il vino. E dell'eccesso di Dioniso cosa ci resta? La storia della tragedia (Euripide), quella del teatro (Nietzesche), l'immagine del Vero (Hegel), la lotta eterna tra logos e thumòs che fende la Storia e le generazioni.