Negli anni ’70, uno dei miei compiti come borsista all’Università di Napoli era aiutare un professore tedesco a fare gli esami. Il mio ruolo era intervenire se il suo italiano, di solito comprensibile, s’inceppava.

Una delle domande preferite era “kual è zekondo lei il prozesso piolociko più importante?” Le opzioni possibili sono molte e la scelta dipende dalla prospettiva che si sceglie. Il professor Beth accettava come buone molte risposte, purché l’esaminando ne desse una giustificazione. Volendo dare una mano agli studenti, ricordavo loro in separata sede di prepararsi a rispondere a questo tipo di quesito, motivando compiutamente la scelta. Tutto andò bene finché una studentessa rispose, dietro mio suggerimento,  “la duplicazione del DNA”. Appena l’udì, il prof. Beth sembrò folgorato. La bonomia con la quale accettava anche risposte goffe, parziali, certamente discutibili era scomparsa. Dopo un lungo, inquietante silenzio, chiese con voce stranamente carezzevole ed evidente regressione verso la lingua nativa “Ach, kuinti zegonto lei lo skopo te la fita ist tuplicazioooone tel TNA? Zolo TNA fa altro TNA, sempre TNA?”. Stupita dall’improvviso cambiamento d’atmosfera, la studentessa si rifugiò in mite silenzio e il risultato fu una bocciatura, del tutto inattesa perché (ben imboccata da me, le domande del prof. Beth erano sempre le stesse) aveva risposto bene a tutte le domande precedenti. Avrei potuto intervenire e salvarla, ma scelsi di non esasperare la situazione, perché non mi aspettavo che il professore decidesse per la bocciatura. Quando questa fu pronunciata, con teutonica determinazione, non potei far più nulla. Inutile dire che la ragazza non dette più segno di conoscermi.

Riflettendo oggi, a distanza di oltre quarant’anni, sul quesito del prof. Beth, credo ancora che la replicazione del DNA sia una buona risposta, che tuttavia va inquadrata nel giusto contesto. L’informazione racchiusa nel DNA sotto forma di una sequenza di nucleotidi rappresenta l’essenza della vita. Da solo, tuttavia, il DNA non è in grado di fare assolutamente nulla. Sia per replicarsi, sia per esprimere l’informazione in esso veicolata, il DNA ha bisogno del complesso apparato cellulare, in particolare il macchinario biochimico che produce energia e materia prima e il sistema che traduce la sequenza lineare di nucleotidi in edifici proteici tridimensionali. Privi di un’organizzazione cellulare, i virus non sono in grado di riprodursi autonomamente, benché possiedano un pacchetto d’informazione genetica sotto forma di DNA o in alcune classi di virus (per esempio i coronavirus), di RNA.

È possibile immaginare condizioni naturali che permettano la sintesi spontanea (non-biologica) di molecole simili al DNA da precursori molto semplici. Nelle condizioni appropriate, tali molecole avrebbero potuto replicarsi spontaneamente, pur in modo impreciso e occasionale. Siamo tuttavia ancora lontani dal ricostruire la sequenza di eventi che ha integrato questi ipotetici replicatori in un’organizzazione cellulare, cioè un ambiente che consente loro di riprodursi in modo preciso e controllato. È cruciale osservare che, quando una cellula si divide, essa trasmette alle due cellule figlie non solo una copia del proprio DNA, ma una “dote” completa del macchinario biochimico necessario per continuare a riprodursi. Per comprendere meglio questo elusivo concetto, pensiamo al ruolo delle membrane. Tutte le cellule sono rivestite da una sottilissima barriera, la membrana cellulare, tra le cui funzioni rientra non solo quella importantissima di barriera selettiva tra l’ambiente intracellulare e l’esterno, ma anche l’accumulo di energia attraverso un meccanismo battezzato “chemiosmosi” dal suo scopritore, Peter Mitchell, poi insignito del premio Nobel. Le cellule complesse, per esempio le nostre cellule e quelle delle piante, contengono anche numerosi tipi di membrane interne, che svolgono compiti specifici. Per accrescersi e dividersi, le cellule devono ampliare la propria dotazione di membrane. Per farlo, esse non fabbricano nuove membrane mettendo insieme componenti liberi, come fa un muratore quando costruisce un muro di mattoni, ma espandono le membrane preesistenti, le quali funzionano come stampi. Al pari del DNA, quindi, le membrane sono strutture ereditarie trasmesse di generazione in generazione. La nascita della vita non coincide con l’apparizione di molecole capaci di replicarsi, ma con l’integrazione di questi replicatori in un sistema cellulare. La riproduzione intesa come replicazione del DNA e, insieme, dell’intero macchinario cellulare, è la proprietà fondamentale della vita. Così formulata, perciò, questa è la risposta migliore al quesito del prof. Beth.

Altra intrinseca proprietà della vita è il sesso. In biologia questo termine non coincide necessariamente con la riproduzione: i batteri fanno sesso sfrenato ma non lo usano per riprodursi. Nella sua accezione più generale e biologicamente corretta, il termine sesso indica qualsiasi meccanismo che conduce all’integrazione nella stessa cellula di DNA proveniente da organismi distinti. Così definito, il sesso ovviamente comprende la riproduzione sessuale nell’uomo e tanti altri organismi, ma comprende anche una varietà di processi di trasferimento di DNA tra organismi tanto diversi quanto i batteri, gli animali e le piante. Il sesso permette di rimpiazzare pezzi del DNA con sequenze derivanti da altri organismi, dando così la possibilità di riparare o ripristinare sequenze danneggiate da errori casuali o fattori mutageni. Senza la possibilità di correzione assicurata dal sesso, l’informazione genetica tenderebbe ineluttabilmente a degenerare nel succedersi delle generazioni. Come la riproduzione, quindi, il sesso è connaturato alla vita ed essenziale per la sua sussistenza.

Una terza possibile opzione è la respirazione. I biologi usano questo termine per indicare non tanto i meccanismi fisiologici di ventilazione presenti in molti animali, bensì la produzione di energia da parte della cellula attraverso l’ossidazione di sostanza organica. Così definita, la respirazione è, ancora una volta, una proprietà fondamentale e universale della vita: tutti gli organismi respirano, e muoiono se smettono di farlo.

Se però volessimo identificare il processo biologico più importante, tuttavia non indispensabile per la vita, non possono esserci dubbi (io almeno non ne ho): la risposta è la fotosintesi.

È questa una complessa via metabolica che converte il biossido di carbonio (o anidride carbonica) in sostanza organica. Il prodotto finale è il glucosio, uno zucchero che può essere direttamente riconvertito in biossido di carbonio nella respirazione o può essere usato come materiale di partenza per la biosintesi di tutti gli altri componenti della materia vivente. Se la conversione del glucosio in biossido di carbonio produce energia, che la vita usa per sostenersi e perpetuarsi, il processo inverso non può avvenire spontaneamente: esso richiede un input di energia che, per effetto di un’ineluttabile legge che governa il nostro universo, DEVE essere superiore all’energia liberata nel processo di smantellamento. La fotosintesi utilizza a tale scopo la luce solare, la fonte d’energia più abbondante e diffusa sulla superficie del pianeta. Un ruolo centrale nella fotosintesi è svolto dalla clorofilla, una molecola di cui esistono in natura numerose varianti, tutte caratterizzate da una struttura ad anello piatto con al centro un atomo di magnesio. La clorofilla compie un lavoro straordinario: essa assorbe la luce e ne incamera l’energia, che viene poi utilizzata da un complesso macchinario biochimico per convertire le inerti molecole di biossido di carbonio in vivaci e reattive molecole di glucosio. Oltre che di luce, questo straordinario processo richiede elettroni, che devono essere ricavati da una fonte esterna. Alcuni organismi fotosintetici utilizzano a tal fine idrogeno, solfuro o altre molecole presenti nell’ambiente ma di solito poco diffuse. Il tipo di fotosintesi più importante estrae elettroni dall’acqua, una molecola estremamente comune e abbondante. L’uso dell’acqua come fonte di elettroni porta alla formazione di un sottoprodotto, l’ossigeno, che è liberato nell’ambiente, per cui questo tipo di fotosintesi è detto fotosintesi ossigenica.

La fotosintesi ossigenica è apparsa almeno 2,7 miliardi di anni fa nei cianobatteri, un tipo di batteri ancor oggi comunissimi, ed è stata acquisita dai progenitori delle piante e delle alghe attraverso un evento di simbiosi. Circa un miliardo di anni fa, infatti, un cianobatterio penetrò all’interno di un piccolo protozoo e vi si stabilì diventando un organello cellulare stabilmente trasmesso di generazione in generazione: il cloroplasto. I discendenti diretti di questo protozoo fotosintetico comprendono le piante e alcuni tipi di alghe. Se guardiamo con un semplice microscopio le cellule all’interno di una foglia, vedremo in ciascuna di esse decine di cloroplasti, tutti derivanti da un antico cianobatterio.

Se la cosa vi stupisce, rincaro la dose. I mitocondri, importantissime fabbriche di energia nelle cellule degli animali, uomo compreso, delle piante e tanti altri organismi, derivano da un batterio vicino a Escherichia coli. Sia i cloroplasti, sia i mitocondri conservano ancora una piccola parte del DNA del loro progenitore batterico, mentre una frazione importante del DNA originale è stata incorporata nel nucleo della cellula ospite e il resto è stato eliminato. La fotosintesi ossigenica produce quasi tutta la materia organica che sostiene la vita sul pianeta. Gli organismi fotosintetici utilizzano il prodotto della fotosintesi come fonte di energia e come materia prima per crescere e riprodursi. Gli organismi non fotosintetici, tra cui l’uomo e gli altri animali, devono invece utilizzare sostanza organica prefabbricata da organismi fotosintetici. Chi s’è stancato, si fermi pure qui, riflettendo sul fatto che tutto il carbonio che forma il suo corpo è stato un giorno fissato e convertito in forma organica da un cianobatterio, un’alga o una pianta. Chi ha ancora della curiosità da soddisfare, vada oltre.

Possiamo rappresentare la fotosintesi ossigenica con una semplice equazione:

biossido di carbonio + acqua + luce ® glucosio + ossigeno

La respirazione (quella che usa ossigeno è di gran lunga la forma più diffusa ed ecologicamente importante di respirazione) è descritta da un’equazione opposta:

glucosio + ossigeno ® biossido di carbonio + acqua + energia

Combinati insieme, i due processi convertono l’energia della luce in energia chimica, che la vita dissipa per sostenersi:

luce ® energia chimica

L’atmosfera della Terra contiene circa il 21% di ossigeno e al momento “solo” lo 0,041% di biossido di carbonio. Sappiamo anche che quasi tutto quest’ossigeno è di origine fotosintetica, e che prima dell’apparizione della fotosintesi il pianeta ne era virtualmente privo.

Se, combinati insieme, fotosintesi e respirazione si limitano a convertire la luce in energia utilizzabile dal macchinario biochimico cellulare, come ha potuto accumularsi l’enorme quantità di ossigeno presente oggi sulla Terra? L’ovvia risposta è che, insieme all’ossigeno, una quantità chimicamente equivalente di sostanza organica è stata sequestrata da qualche parte senza essere consumata dalla respirazione. La massa di sostanza organica vivente accumulata nei nostri corpi e in quelli di tutti gli altri organismi è solo una frazione minima del totale necessario per far quadrare i conti.  Il resto è sostanza organica morta che, col tempo, si è trasformata in molecole difficilmente utilizzabili da parte di organismi viventi, sostanzialmente humus nel suolo, e torba, carbon fossile, petrolio e gas naturali nei sedimenti profondi. L’uso massiccio di questi combustibili fossili da parte dell’uomo sta riportando il biossido di carbonio in atmosfera, causando un aumento della sua concentrazione e, per l’effetto serra esercitato da tale gas, un aumento della temperatura media superficiale del pianeta. La parallela diminuzione dell’ossigeno (consumato nella combustione) incide poco, perché la concentrazione di questo gas in atmosfera è oltre 500 volte quella del biossido di carbonio. Va però notato che solo 300 anni fa, immediatamente prima della “rivoluzione industriale”, il rapporto fra i due gas in atmosfera era circa 1000/1.  Così profondo è l’impatto dell’uomo sulla chimica e biologia del pianeta che è stata proposta l’introduzione di una nuova epoca geologica, l’Antropocene, il cui inizio viene da taluni associato all’emergenza dell’agricoltura, circa 11.000 anni fa, da altri alla rivoluzione industriale.

In assenza di politiche restrittive molto severe, si valuta che la concentrazione di biossido di carbonio in atmosfera salirà a circa 0,1% entro la fine del secolo, un livello non molto lontano dal picco raggiunto circa 55 milioni di anni fa e associato al cosiddetto Massimo Termico del Paleocene-Eocene. Fu questa una fase durata circa 200.000 anni, forse innescata da enormi eruzioni vulcaniche che immisero in atmosfera grandi quantità di biossido di carbonio. Durante questo periodo, la temperatura media globale salì di circa 6 °C e il clima cambiò in modo radicale. Aree prossime al circolo polare artico furono colonizzate da una flora subtropicale e la Germania meridionale fu ricoperta da una fitta foresta pluviale. Il pianeta impiegò circa 200.000 anni a smaltire la sbornia, un periodo molto breve su scala geologica ma immensamente lungo su scala storica. È difficile immaginare che la nostra civiltà sia capace di sopportare uno shock di tale portata.