Nel villaggio sconfinato di FB ho incrociato, per caso, la pagina di Lucio, uno dei sodali del periodo del liceo, quando tutti assieme frequentavamo con entusiasmo, nonostante i rimproveri dei nostri genitori, il mondo dei biliardi locali.

Il dopoguerra era già lontano ma, nonostante il profilarsi della società del boom economico, a Salerno l’offerta di aggregazione per i più giovani, a parte l’azione cattolica e qualche sezione politica con i suoi “pionieri”, era ancora abbastanza limitata.

I “circoli culturali e ricreativi” che caratterizzarono gli anni successivi erano di là da venire e quindi era quasi naturale fare capolino in quelle sale, almeno per giocare a calcio balilla e a ping pong. Lucio, guaglione brillante, versato per la matematica e formidabile giocatore di carte, non l’ho rincontrato mai negli ultimi decenni, pur abitando entrambi nella medesima città. Oltre al piacere di averlo riveduto in un viaggio della memoria, ho potuto riconoscerlo in una foto lo rappresentava, dopo più di mezzo secolo, ancora con l’immancabile e consunto mazzo di “napoletane” tra le mani. Quella sorprendente visione ha fatto scaturire una piena dei ricordi che mi ha ricondotto in un autentico luogo di culto della nostra gioventù, in quel luogo nel quale Lucio mieteva spesso vittime nel gioco del “batuffo”, del quale farò cenno più avanti.

Mi riferisco alla “Sala Diana”, ubicata in Via Pietro da Eboli, affacciata proprio sul trincerone ferroviario. I destinatari di quest’appunto sanno bene di cosa sto parlando. Una sala biliardo, ma non solo. Un salotto “quasi” buono, affollato da studenti di ogni ordine e grado, provenienti specialmente dalle vicine scuole superiori.

Gli affabili proprietari provenivano da Cava dei Tirreni ed erano grandi appassionati dell’arte venatoria, tanto che molto spesso i loro cani sostavano, buoni e silenziosi, accucciati all’interno della pedana della cassa. In effetti, il circolo prendeva, non a caso, il nome della dea della caccia, perché era nato quale club dedicato, almeno inizialmente, sia agli appassionati della stecca sia della doppietta. Il primo responsabile, in quel periodo, era un tale “maresciallo” (non ne ricordo il nome), un tipo segaligno che espelleva con determinazione noi ragazzini, sia per rispettare i regolamenti di pubblica sicurezza e forse anche per conservare il tono più adulto dell’ambiente.

Al cambio di gestione, avvenuto alla fine degli anni Cinquanta, vennero fortunatamente alla ribalta due simpatiche persone, i fratelli Tanuccio (un ex carabiniere detto maliziosamente “o’ cafone”) e Giovanni (chissà perché appellato col soprannome “r’a’ benzina”) che sostituirono il “maresciallo” nella conduzione del circolo. Con una lungimirante operazione di marketing, i nuovi titolari eseguirono una decisa riconversione della sala giochi, riscuotendo un successo notevole nei rioni della parte centrale della città. I ragazzi furono ammessi finalmente al tempio, purché pagassero il dovuto e mantenessero un comportamento sufficientemente tranquillo. D’altra parte, la minaccia di un mazziatone da parte di Giovanni (un centinaio di chili di muscoli ben distribuiti) costituiva un tale deterrente da trasformarci tutti, ove fosse necessario, in piccoli lord inglesi.

Era pur sempre una sala biliardo, ma “ingenua” in quanto dedicata specialmente ai più giovani e off limits per giocatori professionali e quelli che avevano superato i trent’anni. Non mancavano tanti universitari che facevano flanella assieme a quelli che potevano essere i loro fratelli minori. La generazione che aveva preceduto i recenti avventori nel “vizio” era sostanzialmente omogenea alla nuova: si differenziava solo l’età e per la palese scarsità di mezzi dei liceali che vivevano border line la quotidianità del biliardo. I ragazzi guardavano quei giovanottoni con rispetto e ammirazione. Avevano le auto e le fidanzate, facevano arrivare dal vicino bar il caffè e le bibite, non dovevano iscrivere il loro nome nel grande libro del debito curato con pignoleria dai gestori (Tanuccio, segna, per favore, salderò in fine settimana!). Alcuni erano anche appassionati cacciatori e questa loro caratteristica li rendeva personaggi di serie A nella Sala Diana. Il segnale inequivocabile che appartenevano a un altro pianeta era dato dal fatto che, quando si tirava giù la claire attorno alle venti e i ragazzi venivano espulsi frettolosamente, la loro comitiva si radunava qualche volta alla spicciolata nei locali inferiori ove, su un tavolone ormai dismesso, giocava a chemin o a baccarà.

Quasi mai potemmo assistere all’emozionante spettacolo, perché Giovanni e Tanuccio ci impedivano fisicamente la discesa agli inferi. Potevamo solo favoleggiare tra noi di mirabili “mazzoni” con le 104 carte francesi preparate con diabolica abilità da uno di loro per spennare il pollo estraneo di turno. Il giorno dopo si raccontava che il maltolto sarebbe stato consumato in simbiotica comunione presso le pizzerie vicine o andando a sparare assieme ai gestori ai piattelli sulla litoranea in tardissima serata. Di tutti quelli (ed erano legione) faremo appena qualche nome, per discrezione e tenuto conto che la narrazione riguarda una vicenda collettiva, nella quale tutti si sentivano un po’ protagonisti.

Per noi che eravamo appena al ginnasio o al liceo Tonino “o’ guaglione”, Silvio ed Ettore, Tanino, Giovanni, Onorato, Vincenzo, Fernando, Valerio, costituivano un costante punto di riferimento e avevano ai nostri occhi un grande merito: ci trattavano alla pari, nonostante i quattro o cinque anni di differenza che ci dividevano. Se poi si aggiungevano a loro Ninuccio, portiere di riserva della Salernitana, passato in seguito all’Avellino, o l’altissimo Pinuccio, anche lui tra i pali di una squadra di calcio minore, la comitiva poteva dirsi quasi al completo.  Pinuccio aveva la passione per la musica e si esibiva spesso con voce tenorile in proprie composizioni dai versi zoppicanti. Una di quelle, dal titolo “Whisky”, fu per mesi nella hit parade del biliardo, col ritornello improbabile “Whisky, solo whisky voglio tracannar…”, un refrain che, comunque, si conficcò come un chiodo nelle nostre orecchie.

Per la legge inesorabile della storia, il primo gruppo si assottigliò a vista d’occhio, man mano che si perveniva alla laurea e si doveva iniziare a lavorare sul serio. I ragazzi nati dopo il ’40 confluirono invece alla spicciolata nei nuovi club giovanili e la Sala Diana si avviò rapidamente alla definitiva chiusura.  

Abbiamo riferito che la Sala era sistemata in una posizione logistica molto felice: occupava il piano terra e quello sottostante di una linda palazzina e distava pochissimo dal Classico, dallo Scientifico, ubicato allora a lato del Convento dei Cappuccini e, infine, dal Magistrale di Piazza Malta. Quale asilo migliore per i filonisti dell’epoca, specie nelle giornate di pioggia! Difatti, di buon mattino il locale era già presidiato e si era pronti, in un clima di complicità, a trascorrere assieme le successive ore di evasione, in attesa di rientrare con impeccabile faccia tosta presso le nostre case, alla chiusura del turno scolastico.

L’iniziativa poteva contare su saloni molto estesi, suddivisi, come detto, su due livelli. Passiamo a una descrizione sommaria degli ambienti, iniziando dal livello stradale. Una volta superata la “giardinetta” verde di Giovanni, con i sedili posteriori ribaltati per fare spazio ai cani portati al seguito e sempre posteggiata sul marciapiede, tra le ampie vetrate, si accedeva all’interno dalla cigolante porta di sinistra (l’altra, di fianco, era normalmente sbarrata).

Eccoci all’ingresso del piano terra, impattando subito in un bel tavolo di carambola. A destra si trovavano invece due calcio balilla che funzionavano con i gettoni da acquistare alla cassa, quest’ultima abbastanza distante dall’ingresso, con la visuale semicoperta da un pilastro centrale che impediva il completo controllo dei quattro o otto giocatori impegnati in furibonde disfide. Il dettaglio non è superfluo, perché venivano talvolta inseriti fazzoletti in entrambe le porticine per impedire la caduta della pallina e giocare più a lungo con risparmio di costi.  Bisognava però non dare troppo nell’occhio per scongiurare il pericolo di un solenne cazziatone da parte dei gestori, che badavano ovviamente ai loro interessi.

Continuiamo la nostra esplorazione: restando sulla sinistra, dal primo tavolo di carambola si passava a un tavolo detto “all’italiana”, con le sei buche canoniche, molto spesso utilizzato per giocare alle boccette. Poi un secondo tavolo di carambola, in genere preferito perché meno disturbato dalle continue aperture e chiusure della porta d’ingresso. Su quel tavolo si giocava talora col ”piattino” da caffè al centro (quando una delle palline ne toccava il bordo, perdevi i punti sin lì accumulati e dovevi inoltre versare nel piatto una penale. Il contenuto del piattino era incamerato alla fine dal vincitore della partita).

A lato, era situata la porta della saletta delle carte, nella quale accedevano solo quelli che avevano almeno superato i 16/17 anni. Sul fondo, la ringhiera della scalinata ripida che portava nel salone sottostante, dove si giocava specialmente a ping pong. C’erano addirittura due tavoli, quasi sempre in funzione. A sinistra il biliardo vecchio, ricoperto da un telone, che fungeva più che altro da base per qualche sporadico gioco d’azzardo. In fondo, un altro biliardo all’italiana, raramente utilizzato. Una rastrelliera enorme di stecche e stecconi, molti dei quali ormai senza puntale. Parecchio materiale di risulta e sedie vecchie allineate sotto i finestroni che prendevano la poca luce dal sovrastante livello stradale. In definitiva, un sotterraneo umido, un po’ buio e intriso dei vapori delle gare con le racchettine e la pallina di celluloide. Solo di rado, e quando tutti i tavoli della sala superiore erano occupati, ci si poteva adattare per qualche provvisoria partita a boccette.

Lasciamoci alle spalle le grida e le rincorse degli scatenati cultori del ping pong, che si scontravano a singolo e a doppio, e risaliamo le scale per riprendere il cammino in senso inverso. Incontriamo la cassa con il telefono a muro, abilitato solo ricevere; per chiamare, Tanuccio si faceva pagare venti lire e solo in tal caso sbloccava il catenaccetto che bloccava il disco della ghiera). Per punire in qualche modo “o’ cafone” per la sua esosità, si moltiplicavano le telefonate burla che facevano leva sulla supposta sua ignoranza (“Sala Diana? C’è Lumumba Patrizio? Al che Tanuccio chiamava a pieno volume “Patrizio Lumumba a telefono!”, suscitando grandi ilarità collettive).

Tralasciamo il lato sinistro, descritto in precedenza e incontriamo l’alto pilastro sotto il quale campeggiava un tavolino in formica con quattro sedie attorno per giocare a tressette. Subito accanto, tre meravigliosi flipper oggetto di culto da parte della clientela. Seguiva il tavolo di “italiana”, quello più bello e nuovo sul quale molto spesso si giocava alla“bazzica”. Infine, i due calcetti che abbiamo già visto, allineati in orizzontale alla seconda porta, quella di solito sbarrata. 

Un doveroso inciso per la bazzica. Era un gioco molto divertente, al quale potevano partecipare più persone contemporaneamente e che accoppiava, alla complessità delle regole e alla padronanza dell’uso della stecca, anche il mistero della carta nascosta, elemento indispensabile per dotare di una forte suspense il gioco. Il capofila della partita distribuiva una carta napoletana a testa, da uno a dieci, che doveva restare assolutamente segreta. Per vincere, bisognava arrivare a trentuno (qualche volta a quarantuno) punti, sommando a quelli ottenuti con i tiri il numero espresso dalla carta che avevi tenuto ben celata. Se la sommatoria punti/carta avesse superato il limite previsto, finivi fuori gioco poiché avevi “sballato”. Non mi dilungherei oltre se non per ricordare agli esperti del mestiere che, a parte i birilli dal singolo diverso valore, era ancora prevista una buca laterale da un punto, anziché due, e che il pallino colpito con la propria palla valeva quattro punti e non tre e che prima di ogni tiro bisognava “dichiarare” (dire cioè proprio quello che s’intendeva fare).

La convocazione per la bazzica, quando gli avventori erano tanti, seguiva un tumultuoso cerimoniale. All’improvviso, dopo cenni d’intesa tra i più navigati, uno dei presenti lanciava il grido di battaglia: “batte e segue, generale!” e tutti si avviavano di corsa verso il tavolo verde, occupandone un posto ai bordi. Ricordiamo che più di dieci non potevano giocare. Il promotore raccoglieva la “posta”, il cui ammontare era depositato in una delle sei buche e che avrebbe costituito, al netto del prezzo delle stecche da pagare alla cassa, il premio dell’abile o fortunato vincitore.

Cominciata la partita, dopo un’euforia iniziale cominciavano a serpeggiare le prime diffidenze reciproche, connesse alle alleanze sotterranee che si potevano creare durante la partita. Difatti, c’era il rischio che qualche giocatore tagliato fuori dalla vittoria finale potesse favorire il tiratore successivo con una “rimanenza” che avrebbe consentito a chi lo seguiva una più facile conclusione del match. Non mancavano quindi i suggerimenti interessati e perentori (“devi impallarlo”) e le recriminazioni se ciò non succedeva (“che hai fatto? Stai mica a parte e frate con quello appresso?”). La sorveglianza discreta di Tanuccio e Giovanni impediva che litigi potessero degenerare, ma che al tavolo di bazzica si verificasse qualche “combine” non si poteva mai escludere a priori.

Dedichiamo uno spazio speciale ai tre flipper, un’attrattiva che calamitava la curiosità di tutti. C’erano giocatori eccezionali che facevano spettacolo a sé. Tra questi, due soggetti a dir poco “estroversi” che interloquivano con la macchina elettrica alternando ai momenti di esaltazione un repertorio di male parole mai più ascoltate nella nostra vita successiva. Salvatore e Felice il triestino si distinguevano per la bravura e per la coloritura del linguaggio che raggiungeva il suo culmine al momento malaugurato del tilt. Su Felice, uno studente d’ingegneria già abbondantemente fuori corso, si raccontava che non si era sottoposto una volta a un importante esame perché troppo impegnato ad accumulare punti e caffè omaggio, accanendosi su un flipper in un bar napoletano di Via Mezzocannone. Felice era molto simpatico e ci piaceva come strascicava le parole col suo accento esotico. Si attribuivano a lui divertenti gag. Ne riportiamo un paio: la prima, una sua risposta mordace al professore che lo stava schernendo dopo una prova scadente. Il docente avrebbe invocato a voce alta: “bidello, porta nu’ sicchio e’ vrenna”, per dare pubblicamente dell’asino all’esaminato. Al che Felice, imperturbabile, avrebbe replicato “Per me un caffè, grazie”. La seconda, sicuramente rientrante nel personaggio, sarebbe consistita in un ineffabile commento al termine di una seduta disastrosa. L’interrogante si accingeva a scrivere “respinto” sul libretto, quando l’allievo avrebbe sussurrato: “Professore, non mi dia, per favore, un voto troppo buono perché mi conosco bene. Poi mi cullerei sugli allori”.

Sul compianto Salvatore potrebbe scriversi un libro intero, tanta era la sua effervescenza e il suo estro verbale. Alcuni tentavano persino di imparare a memoria le sue imprecazioni per ripeterle a ogni piè sospinto: ma non era mai la stessa cosa dell’originale. Queste sceneggiate avvenivano sui primi due flipper partendo dalla cassa, quelli che richiedevano l’immissione nella fessura di un pezzo da cinquanta lire. I più giovani giocavano invece quasi esclusivamente sul terzo flipper da venti lire. Lì si spassava e dilapidava il patrimonio Bebescio, che ti chiamava spesso a testimone per verificare il livello raggiunto, in modo da poterlo segnare su una specie di brogliaccio dove si registravano i record.

Arriviamo finalmente ai giochi di carte, a due (scopa a sette o a undici e successiva briscola a cinque carte, detta ”quaranta”), a quattro (tressette classico, a coppie) o a quattro o cinque, “a chiamata”. In tal caso, si parlava di “batuffo”. Non stiamo a declinarne le regole. La puntata era, di norma, da cinquanta e cento lire (per la singola o la doppia, se facevi cappotto). Non di rado un giocatore con carte di valore ben assortite reclamava la “sola” e, se otteneva i sei punti minimi per la vittoria, incamerava la posta da tutti i perdenti. Anche nel gioco delle carte, vuoi nella sala sotto gli occhi di tutti o nella saletta, molto più riservata e professionale, non mancavano gli spregiudicati che si sedevano per tentare la sorte con una ridotta liquidità. Dopo poche mani si cominciavano a sentire inequivocabili espressioni come “devo dare” al posto dell’effettivo pagamento, frasi alle quali seguiva l’espulsione del reprobo dal tavolo, mentre qualche malizioso intonava per sberleffo i versetti di una canzone in voga “com’è bella l’avventura, senza ieri né domani…”.

Mentre si verificava l’inevitabile ricambio fisiologico dei partecipanti (i laureati si avviavano per le loro mete, gli universitari diradavano le presenze, i liceali e persino qualche iscritto alla terza media rimpiazzavano quelli che uscivano), a cavallo degli anni Sessanta avvenne un ulteriore fatto esterno che compromise, in pochi mesi, la sopravvivenza della Sala Diana. Accadde che fu attuato l’antico progetto di ammodernamento della linea ferroviaria Salerno/Nocera Inferiore, mediante la costruzione della Galleria Santa Lucia. In un amen, furono poste transenne e paratie che murarono letteralmente l’ingresso della palazzina, alla quale si poteva accedere con estrema difficoltà. Le frequentazioni si diradarono, la Sala appariva ormai desolatamente vuota. Non abbiamo contezza se Giovanni e Tanuccio furono in qualche modo indennizzati. Di loro sappiamo solo che chiusero definitivamente il Biliardo per aprire un’armeria a Cava de’ Tirreni. E la ragazzeria? Nel frattempo erano nati i circoli giovanili: La Scacchiera, Il Ridotto, Il Faro, Il Dialogo, La Spirale e altre sigle. Alla bazzica non giocammo più e nemmeno a calcetto. Sui nostri nuovi club venivano anche le ragazze, il che rendeva tutto più bello e più gentile. Però qualche rimpianto per un’emozionante carambola s’insinua ancora adesso nei nostri cuori e ci piacerebbe poter gridare al nostro avversario, alla fine della partita vinta: “prego, a bancone!”, spedendolo con soddisfazione da Tanuccio o da Giovanni per il pagamento delle stecche e della consumazione!